Mark Cavendish su Netflix, non si vince da soli

La prima volta che ho visto di persona Mark Cavendish era il 15 maggio 2012, decima tappa del Giro d’Italia, da Civitavecchia ad Assisi. Ero a circa 3 km dal traguardo, in mezzo a degli olivi sulla salita infame di San Damiano, ultimo tratto di campagna prima del centro. Una salita ripida che diventerà parte delle mie mappe podistiche una volta trasferitomi qua, ma questo non potevo ancora immaginarlo. Cannonball avanzava senza fretta in coda con il gruppetto dei velocisti, l’arrivo del giorno non era roba per loro. Era bellissimo nella sua maglia di campione del mondo in carica, i colori dell’iride sul petto nel pomeriggio di maggio, e due tronchi spropositati di muscoli dove gli altri avevano normali cosce. Da allora l’ho rivisto alla partenza di alcune tappe al foglio firma, durante il Giro, alla Tirreno-Adriatico, mai in una delle sue volate. Si vede che era destino che vedessi l’uomo più esplosivo del mondo su una bici, sempre in momenti statici.

Ma non basta, oltre la staticità lo ritrovo in un’inaspettata profondità in questo documentario sulla sua carriera, anzi, più che altro incentrato sul suo ritorno in una vittoria di tappa al Tour de France dopo 5 anni dall’ultima, la 14° del Tour 2016, Montélimar – Villars-les-Dombes. Questo arco temporale sembrava la trama del classico crepuscolo destinato ai vecchi campioni: un ultimo capitolo fatto di malinconiche stagioni a vincere corse sempre meno prestigiose, attenzioni in squadra rivolte via via a sprinter più veloci, e patetici tentativi di inseguire il passato.


Non era tutto qua, in questo tempo c’è la mononucleosi che nella prima parte del 2017 lo tiene lontano dalle posizioni vertice, la caduta ed il ritiro al Tour de France nella 4° frazione, lunghe tappe in salita sempre a lottare contro il tempo massimo, e soprattutto la conseguente depressione che culmina con le lacrime davanti alle telecamere all’arrivo della Gand-Wevelgem nell’ottobre 2020, dopo stagioni nell’anonimato, accompagnate dalle parole: “potrei chiudere qui”.
Ma non chiude, “Ero il migliore del mondo” ripete nel documentario e probabilmente più volte a se stesso. È smarrito, nelle ultime squadre compagni e direttori sportivi non riescono a decifrarlo. Oltre la famiglia, con la moglie Peta tosta e determinata a tenere in piedi il rapporto e i loro tre bambini, l’unico che pare ancora credere in lui è Patrick Lefevere, team manager della Quick Step, il branco di lupi. Lefevere chiama Cavendish affermando di avere un posto in squadra, ma non soldi per lui, Mark se ne frega, non è di quelli che ha necessità in questo momento della sua esistenza fuori fuoco. Torna così dal manager delle annate 2013-14-15.


Mark trova l’allenatore Vasilis Anastopoulos, inizialmente scettico sull’inserimento di Cannonball nel team. Il velocista aveva una bella fama di rompiballe, ma i due si piacciono da subito perché sono schietti e diretti. Creano in breve un legame profondo, dove Vasilis lavora sull’anima del campione ferito, distrutto ma non sconfitto.
Partito dietro nelle gerarchie della squadra, il 12 aprile torna comunque a vincere una volata dopo tre anni, al Giro di Turchia. Vincerà quattro tappe su otto, poi un’altra vittoria in Belgio su Merlier e Ackermann. Il team Quik Step non punta però su di lui per il Tour de France 2021, e “senza Tour il ciclismo non esiste” afferma Mark all’inizio del film. Su consiglio di Vasilis si allena però come se dovesse correrlo. Anche il destino sembra girare, l’infortunio di Sam Bennet cambia i piani del branco di lupi, e il principale velocista della squadra diventa lui.


Ritrova fiducia e punta una tappa del Tour: la quarta, a Fougères. Dice ai compagni che deve arrivare all’ultima curva a destra nel ristretto gruppo di testa: “portatemi lì e vinco”.
Quella sottile linea bianca sull’asfalto è l’unico posto dove può ricostruire il proprio ordine, e deve passarci per primo.
E passa per primo, davanti a Bohuanni e Philpsen. Dopo cinque anni. Vince dopo un tempo imparagonabile tra la vita normale e lo sport professionistico. È Michael Jordan e Alì messi insieme. E piange, piange a lungo sull’asfalto dopo il traguardo di Fougères, piange lacrime che solo lui, e nessun’altro può capire da dove arrivino.
Nel 2021 vincerà altre tre tappe eguagliando le 34 di Eddie Merckx.

“Non si vince da soli” afferma alla fine Mark Cavendish, il ragazzo rompiballe convinto di non dover chiedere mai aiuto a nessuno, ha lasciato spazio all’uomo che ha trovato questa nuova consapevolezza, e appare risolto, finalmente felice.


«Arrivederci, amigo. Non vi dico addio. Vi dissi addio quando significava qualcosa. Vi dissi addio quando ero triste, in un momento di solitudine e quando sembrava definitivo»

Il lungo addio, Raymond Chandler

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